Walter Veltroni in realtà ci ha provato a far nascere un grande partito, è stato anche coraggioso all’inizio e ha fatto anche più di quanto ciascuno di noi avesse sperato e immaginato, liberandosi con una scrollata di spalle delle improponibili scorie neo, ex, post comuniste. L’aver cancellato i comunisti e i verdi dal Parlamento è uno dei grandi meriti storici di Veltroni, e per questo, fosse anche solo per questo, ha diritto di entrare nel Pantheon dei padri della patria, proprio lui che in passato ha provato a farci credere di non essere mai stato comunista. Non è andato fino in fondo, non è riuscito a sganciarsi dal dalemismo revanscista, una delle dottrine politiche meno coerenti e più inconcludenti della nostra recente storia politica.
Veltroni ha perso l’occasione della sua vita, malgrado fosse legittimato democraticamente dalle (finte) primarie popolari. Si è alleato, per affinità sviluppate nelle precedenti stagioni politiche, con quelli che l’Italia è una Repubblica fondata sulle manette, ridicolizzando fin dall’inizio l’idea di voler creare un nuovo partito moderno, liberale e di sinistra. E, non contento delle pedate che ha continuato a prendere da Antonio Di Pietro e dalla sua banda di volenterosi ammanettatori, si è impegnato nella più insensata delle battaglie politiche di tutti i tempi, peraltro perdendola, quella per eleggere alla commissione di Vigilanza sulla Rai nientedimeno che il padre di tutti i fondamentalismi giustizialisti degli ultimi vent’anni, Leoluca Orlando.
Ma la fine della segreteria Veltroni non è cominciata con la sconfitta con Berlusconi, ma il giorno dopo le elezioni. In natura, tranne Eugenio Scalfari, nessuno era davvero convinto che Veltroni potesse farcela contro il Cav. Era evidente che il Pd avrebbe perso e che il suo leader avrebbe dovuto cominciare una lunga traversata nel deserto per completare il processo di riforma della sinistra e della società italiana. Veltroni invece s’è fatto imbrigliare dalle grandi strategie elaborate da quella mente lucidissima di Massimo D’Alema, roba forte del tipo riallearsi con i comunisti o, perdinci, con Pier Ferdinando Casini, se non addirittura con l’ex costola della sinistra, cioè con la Lega, sulla base di una piattaforma programmatica che, parole di Marco Follini, avrebbe posto il Pd con i socialisti in Europa, con la Cgil in Italia e con Hamas in medioriente.
Veltroni s’è rifugiato nell’antiberlusconismo da cui lodevolmente si era liberato in campagna elettorale e in altre battaglie improbabili volte a parare i colpi di Di Pietro e D’Alema. La sconfitta del modello neoprodiano di Renato Soru è soltanto l’ultimo ed eclatante episodio del disastro, ma probabilmente è la vittoria di Matteo Renzi alle primarie di Firenze, contro i candidati espressi delle cariatidi di partito, a segnalare plasticamente la crisi del Pd. Una delle cose che si dice, ed è vera, è che il Partito democratico non sia riuscito a creare una sintesi politica dall’incontro tra l’anima socialdemocratica e quella cattolico-progressista delle sue componenti principali. Ma il caos di questi giorni non è stato creato dalla frattura tra ex comunisti ed ex democristiani, piuttosto da quella che il brillante blogger di sinistra Francesco Costa definisce “la guerra civile degli ex Ds”, quegli ex compagni di scuola berlingueriana che costituiscono il principale ostacolo alla nascita di una sinistra normale e obamiana.
di Christian Rocca su Il Foglio, 18 Febbraio 2009