Tutto il contrario che ad Amsterdam
Berselli, Brancoli, Barenghi. Nessuno di loro può essere definito di destra. Tutti s’identificano in qualche modo in un’area che va dalla cosiddetta sinistra radicale al centrosinistra. Evidentemente, almeno a giudicare dai loro libri, la sinistra italiana non si sente tanto bene.
Non è una grande scoperta, d’accordo. A voler essere rigorosi, non è una novità nemmeno sul piano editoriale. “A casa ho uno scaffale lungo un chilometro per ospitare saggi, libelli e pamphlet sulla crisi della sinistra”, ha scritto martedì su Repubblica Michele Serra. “Ma tutti a rischio di inflazione per almeno due motivi: il primo è che la sinistra è effettivamente in crisi, il secondo è che i suoi intellettuali traggono dalla crisi ispirazione quasi infinita”.
Difficile dargli torto (su entrambe le cose). E se dai libri si passa agli articoli su quotidiani e settimanali, ai talk show, alle trasmissioni radiofoniche e ai siti Internet, il tasso di inflazione raggiunge rapidamente livelli da anni Trenta. In perfetta armonia con il tenore generale del dibattito.
Se però ci si domanda da dove questa terribile crisi sia cominciata, ecco affacciarsi un sospetto inquietante. E cioè che in Italia la crisi della sinistra sia nata prima ancora della sinistra. Se poi si pensa ai molti articoli, libelli e pamphlet dedicati alla “crisi della destra”, una destra che non è mai “normale”, “moderna” ed “europea” – oppure lo è troppo, smarrendo così “l’identità”, “le radici” e “i valori” tradizionali – si capisce che il discorso non vale solo per la sinistra (e se accanto allo scaffale dedicato alla crisi della sinistra, in casa Serra, c’è solo “uno scaffalino vuoto”, quello “destinato ai libri sulla crisi della destra”, non è colpa del mercato editoriale).
Il punto è che in tutto questo interrogarsi su come siano cambiate, snaturate o deperite la destra e la sinistra italiane, si perde di vista il fatto che in Italia, per almeno mezzo secolo, non si sono mai avute né l’una né l’altra. Si rischia insomma di finire come quel sindaco di “Caro diario” che non trovando nella sua remota isoletta un posto in cui ospitare l’unico turista, a ogni porta che gli veniva sbattuta in faccia, commentava amareggiato: “Tutto il contrario che ad Amsterdam!”. Da un lato, infatti, il principale partito di governo in Italia si chiamava Democrazia cristiana, e certo non era né si definiva “di destra”; dall’altro, il principale partito di opposizione si chiamava Partito comunista, e dalla sua fondazione nel 1921 fino ai primi anni Ottanta non ha mai detto né pensato di rappresentare “la sinistra”.
Come ricorda Armando Cossutta, tanto per Togliatti quanto per Berlinguer, i comunisti rappresentavano “il movimento operaio”, “i lavoratori”, “le classi subalterne”, “le masse popolari”. Non “la sinistra”. Semmai, come sostiene Andrea Margheri, il dibattito si concentrava sulla domanda se bisognasse dire “classe operaia” o invece “classi lavoratrici”, per non scadere nell’operaismo e nel settarismo. E più o meno lo stesso discorso, almeno fino agli Settanta, valeva pure per i missini.
“Nella ‘Dottrina del fascismo’ di Benito Mussolini – osserva Giano Accame – la parola ‘destra’ compare una sola volta, e tra virgolette”. (“Si può pensare che questo sia il secolo dell’autorità, un secolo di ‘destra’…”, scriveva infatti il Duce in quello che sarebbe diventato il testo fondamentale per generazioni di fascisti e neofascisti). Persino Giorgio Almirante, quando negli anni Settanta aprì le porte del suo partito ai monarchici e cambiò il nome in “Msi-Destra nazionale”, incontrò serie resistenze. E non solo perché il Msi – e lo stesso Almirante – provenivano dal fascismo di Salò, dunque dal cosiddetto “fascismo di sinistra”. Ma anche perché, come ricorda Accame, già allora “le definizioni ‘destra’ e ‘sinistra’ ci apparivano superate”. Secondo un modo di pensare perfettamente speculare a quello dei comunisti, infatti, i missini non si definivano come “la destra”, ma come “un movimento di alternativa sociale e nazionale, di alternativa al sistema”.
A ripensarci oggi, tra tante lamentazioni sulle smarrite identità di destra e di sinistra, viene da sorridere. Eppure è solo negli anni Settanta che quelle definizioni cominciano a imporsi, e spesso come contestazione dei partiti tradizionali. Iniziano a imporsi cioè proprio quando comincia la lunga crisi della Prima Repubblica, per godere poi di un singolare quanto effimero trionfo al momento del suo tramonto, nel biennio terribile di Mani Pulite. Di quegli anni è peraltro la prima edizione del breve e fortunatissimo saggio di Norberto Bobbio intitolato per l’appunto “Destra e sinistra – Ragioni e significati di una distinzione politica”, pubblicato da Donzelli nel 1994. Giusto l’anno in cui si chiude Tangentopoli e comincia la stagione berlusconiana.
Nuovo inizio, brutta fine
Tra Berlinguer e Berlusconi c’è però Achille Occhetto, il crollo del comunismo e la fine del Pci. Ed è qui che molte suggestioni della “nuova sinistra” entrano nel lessico di quel partito che Berlinguer aveva definito non molti anni prima come “rivoluzionario e conservatore” (e cioè, almeno secondo le distinzioni classiche della democrazia anglosassone cui si rifaceva Bobbio, tutto meno che “di sinistra”). Del resto, non è un caso che persino al momento di abbandonare la strategia del compromesso storico per la linea dell’alternativa (con i socialisti) Berlinguer insistesse tuttavia nel definirla “alternativa democratica”. Giammai “alternativa di sinistra”.
E’ con la “svolta”, con il “nuovo inizio” e con la “carovana”, a partire dalla convinzione occhettiana che si potesse uscire dal comunismo “da sinistra”, che il termine comincia a riassumere in sé l’identità degli ex comunisti, orfani del comunismo. Ed è così, con la svolta e con il parallelo “sdoganamento della destra”, che all’inizio degli anni Novanta si pongono le basi del bipolarismo e del nuovo sistema. Dunque è solo in quel brevissimo intervallo tra la fine della Prima e l’inizio della Seconda Repubblica, si potrebbe dire, che in Italia la sinistra si chiama “sinistra” e la destra si chiama “destra”. Insomma, a ripercorrere tutto il dibattito sull’identità e il futuro della sinistra in ordine cronologico, si può quasi sostenere che la sinistra italiana sia un prodotto della sua crisi.
Può anche darsi, naturalmente, che un simile paradosso abbia una spiegazione semplicissima. Che si tratti soltanto di un gioco di parole. “Prima della Seconda Repubblica avevamo una nomenclatura politica molto più perspicua di questa banale dicotomia destra-sinistra, che significa assai poco, come dimostra il fatto che il popolo continua a dire sempre i comunisti, i democristiani, i fascisti…”, sostiene ad esempio Giuseppe Vacca. “Del resto – aggiunge il presidente dell’Istituto Gramsci tra il serio e il faceto – io stesso non so mica se sono di destra o di sinistra. So che sono un vecchio comunista togliattiano e gramsciano”.
Postcomunisti, postfascisti e posticci
D’altronde, come sostiene Roberto Gualtieri, che dell’Istituto Gramsci è vicedirettore, “tutti i movimenti politici degni di questo nome si sono sempre definiti a partire da chi rappresentavano e da cosa volevano, non sulla base di categorie politologiche, e non politiche, come destra e sinistra”. Non si tratta solo delle grandi famiglie ideologiche che hanno ispirato in tutto il mondo la nascita di partiti comunisti, fascisti, liberali o socialisti. “Basta pensare a laburisti e conservatori in Gran Bretagna, democratici e repubblicani negli Stati Uniti, socialdemocratici e cristianodemocratici in Germania”. E l’eccezione rappresentata da ‘Die Linke’ (“la sinistra”) non farebbe che confermare la regola, trattandosi di un partito nato in tempi recenti dalla confluenza tra l’ala sinistra della Spd e gli ex comunisti della Germania Est. In tutto il mondo, insomma, il ritorno della “sinistra” – non la sua scomparsa – sarebbe dunque un segno della sua crisi (o se si preferisce, della crisi dei suoi partiti tradizionali). “Tanto è vero – prosegue Gualtieri – che il Pci sceglie di chiamarsi ‘Partito democratico della sinistra’ proprio perché non vuole chiamarsi socialista né laburista”. Nel tentativo di preservare la propria “specificità”, il Pds finisce così per autorelegarsi in un limbo – quello postcomunista – da cui impiegherà anni, e molte sconfitte, a uscire. “Quella scelta è stata la più drammatica ammissione di assenza di idee e vaghezza di propositi: non si sapeva cosa si voleva essere, e dunque, per non dirsi né comunisti né socialdemocratici, ci si disse ‘della sinistra’ e basta”.
Resta il fatto che in Italia si è parlato di destra e sinistra dall’Unità fino alle soglie della Prima guerra mondiale. “Ma allora – osserva Gualtieri – quelle definizioni non distinguevano due veri partiti. Esprimevano soltanto un’articolazione interna alla classe dirigente liberale, che sarebbe venuta meno molto presto”. E cioè con l’ingresso nella vita politica e in Parlamento dei partiti popolari socialista e cattolico. Dunque non è così illogico che con il crollo del comunismo e la “morte delle ideologie”, quando tutti cominciano (o ricominciano) a dirsi liberali, tornino in campo le definizioni di destra e sinistra (e che a spingerle avanti sia un filosofo liberale e azionista come Bobbio). Ed è non meno significativo che a rispolverare quei termini, così poco amati dai partiti di origine, siano proprio le formazioni radicali che ne rivendicano l’eredità: “la Destra” di Francesco Storace e “la Sinistra, l’Arcobaleno” di Fausto Bertinotti (cui si richiama oggi, salvando perfettamente la simmetria dell’accostamento, il nascente “la Sinistra” di Nichi Vendola).
Date le premesse, non stupisce che il punto di vista dello storico Alessandro Campi, direttore della fondazione finiana FareFuturo, sia molto simile a quello dei suoi colleghi gramsciani. Anche per Campi, infatti, tutto comincia con la Seconda Repubblica. “Invece di metabolizzare in chiave storica la nostra tradizione politico-culturale – sostiene – abbiamo preferito liquidarla. Ed è iniziato un gioco spaventoso di rimozione: tutti si sono ricostruiti le proprie biografie immaginarie. E nell’ansia di ripartire da zero, si sono presentati con identità posticce. Di qui l’ossessiva ricerca di modelli esteri, da Aznar a Sarkozy, da Zapatero a Obama, per colmare il vuoto di idee e di progetti”. Fatica sprecata, oltretutto, perché “i modelli politici e gli stessi termini destra e sinistra significano sempre cose diverse, sulla base, per l’appunto, della storia nazionale”.
Dunque non è vero che destra e sinistra non significhino più nulla, come si usa dire nei libri e negli articoli sulla crisi dell’una o dell’altra. Restano però concetti relativi, quali sono stati sin dalla nascita, alla convenzione rivoluzionaria francese, dove furono coniati per designare semplicemente chi sedeva da un lato e chi dall’altro rispetto al presidente. “E perciò – fa notare Accame – i termini sono anche rovesciati”. La destra sta a sinistra, la sinistra a destra. Come dire che la crisi d’identità, la confusione, la perdita di significato che spesso si lamenta, in verità, è scritta nell’origine stessa di quelle parole.
La fine della Storia
Il problema dell’Italia di oggi, secondo Campi, è che ormai “tutti hanno rinnegato tutto”. E sono rimasti senza niente. “Il Pdl ambisce a essere una sorta di franchising del Ppe, che però a sua volta non esiste, non è che un contenitore. E lo stesso discorso varrebbe per il Pd con il Pse, ma con l’aggravante che per le sue divisioni interne non riesce nemmeno a raggiungere questo obiettivo minimo”. Ma forse non è nemmeno qui il punto. Certo è che dalla fine della Prima Repubblica a oggi tutti i partiti hanno preso a rivendicare al tempo stesso la propria radicale novità e la propria fortissima identità, come se fosse concepibile un’identità senza un passato. Nel Partito democratico alcuni sono arrivati persino a parlare di “un’identità declinata al futuro”. Ma sono casi-limite. E forse il cuore del problema, più che nei diversi partiti, sta proprio in quel lungo scaffale sulla crisi della sinistra di cui parlava Serra.
Il libro di Barenghi si conclude evocando “un’idea, che se non fosse diventata, chissà perché, una parolaccia, la definirei anche un’ideologia. Ossia una filosofia politica capace di ridare un senso alla sinistra del secondo millennio”. Il libro di Brancoli si chiude con una citazione di Massimo D’Alema sul rischio che la sinistra divenga in Italia una “minoranza strutturale”. E con una citazione dalemiana si chiude anche il libro di Berselli: “La sinistra è un male. Solo l’esistenza della destra rende questo male sopportabile”.
Ma che sia priva di idee, a rischio estinzione o semplicemente “un male”, comunque sempre e perpetuamente in crisi, praticamente dalla nascita, la sinistra resta tuttavia ancora là, proprio come la destra. Poi le si chiami come si vuole. A pensarci bene, la sinistra è in crisi più o meno da quando l’Italia è “in transizione”. Ma una transizione lunga tre decenni non è una transizione, e lo stesso si può dire delle crisi d’identità (ma della crisi d’identità dell’Italia parliamo un’altra volta).
Forse però si può dire anche per la sinistra quello che lo storico Giuliano Procacci, recentemente scomparso, scriveva nella sua “Storia degli italiani” a proposito dell’Italia. “Un luogo comune spesso ripetuto, per lo più da italiani – scriveva Procacci – è che l’Italia è il paese di Pulcinella. Ma Pulcinella non è, come sappiamo, soltanto un guitto, ma un personaggio, una ‘maschera’ di grande spessore e verità umana, che, come il suo confratello cinese AH Q, ha molto vissuto, molto visto e molto sofferto. A differenza però di AH Q, Pulcinella non muore mai, perché egli sa che tutto può accadere nella storia. Anche che la sua antica fame venga un giorno saziata”. Chissà.
Francesco Cundari, Il Foglio